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L’impresa familiare nelle coppie conviventi di fatto

a cura di Luca Daffra, Marco Marzano - Studio Ichino, Brugnatelli e Associati  | 30 agosto 2024

La normativa sull’impresa familiare ha carattere residuale e ha lo scopo di evitare l’attrazione nel lavoro gratuito della prestazione stabilmente resa dal soggetto legato all’imprenditore individuale da affectio maritalis: su queste basi, con Sentenza 25 luglio 2024 n. 148, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina introdotta ad hoc dalla Legge Cirinnà per l’attività resa dal "convivente di fatto" nell’impresa del convivente (art. 230 ter c.c.) in quanto peggiorativa rispetto a quella prevista dall’art. 230 bis c.c.  e, allo stesso tempo, ha riconosciuto come il convivente more uxorio debba essere incluso nel novero dei "famigliari" di cui al comma terzo della disposizione citata.

La normativa sull’«impresa familiare» e la sua ratio

L’art. 230 bis  c.c. è stato introdotto dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 (Legge n. 151/1975) al fine di apprestare una qualche forma di tutela per il familiare che presti stabilmente la propria attività lavorativa all’interno della famiglia o dell’impresa individuale del proprio parente. In questi contesti, difatti, la prova della subordinazione è sempre stata estremamente difficile da fornire e, di conseguenza, queste situazioni finivano per essere attratte inesorabilmente nell’ambito del lavoro gratuito, reso “affectionis vel benevolentiae causa”, ammettendo - o comunque non tutelando adeguatamente - situazioni di potenziale abuso o sfruttamento, che venivano così lasciate senza alcuna protezione effettiva.

La norma citata ha avuto proprio lo scopo di evitare questi fenomeni, garantendo al familiare che presta la propria attività di lavoro in modo continuativo nella famiglia o nell’impresa familiare, una cd. posizione partecipativa sia in punto di diritti patrimoniali (ossia il “diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia” e la partecipazione “agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato”) sia di diritti di tipo amministrativo-gestori (circa le decisioni sull’“impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa”).
Originariamente erano considerati come "familiari" solo “il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo” dell’imprenditore, mentre in seguito alla Legge Cirinnà si è incluso nella definizione anche l’altra parte dell’«unione civile» (cfr. la norma di coordinamento di cui all’art. 1 co. 20 Legge n. 76/2016).

La Legge Cirinnà ha portato innovazioni in questo ambito anche per i c.d. "conviventi di fatto", intendendosi per tali “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile” (art. 1 co. 36 Legge n. 76/2016). Nello specifico, considerato che anche il convivente poteva risultare esposto a fenomeni potenzialmente abusivi come quelli del «familiare, nel 2016 è stata altresì introdotta una forma di tutela attenuata per questa tipologia di rapporti con l’art. 230 ter c.c. (rubricato sub «Diritti del convivente»), il quale prevede, in favore del “convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro conviventeuna partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato”, salvo che tra i conviventi non sussista “un rapporto di società o di lavoro subordinato”.

Il caso a quo e l’ordinanza di rimessione delle Sezioni Unite

Il giudizio innanzi alle Sezioni Unite rimettenti prendeva le mosse dal caso della Ricorrente che, avendo prestato per oltre 10 anni la propria attività in favore dell’azienda eno-turistica del proprio convivente, agiva nei confronti degli eredi dell’imprenditore onde vedere accertato il proprio diritto alle tutele di cui all’art. 230bis c.c.

La Ricorrente risultava soccombente sia per il Tribunale di Fermo, che escludeva l’applicabilità dell’art. 230 bis c.c. non essendo indicato il convivente di fatto tra gli aventi diritto di cui al comma 3° della norma, sia per la Corte di Appello di Ancona, che confermava la decisione precedente e rilevava l’inapplicabilità anche dell’art. 230 ter c.c. in quanto norma emanata successivamente alla cessazione della convivenza.

Le Sezioni Unite, con ordinanza del 18 gennaio 2024, hanno così sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 230-bis co. 1 e 3 c.c. nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio e, “in via derivata”, dell’art. 230-ter c.c. per prevedere in favore del convivente di fatto “una tutela inferiore rispetto a quella prevista [ex art. 230 c.c.] per il familiare”. In particolare, tali norme contrasterebbero:

  • con l’art. 2 Cost., in quanto considerano “in modo differenziato e non unitario un contributo collaborativo che, a prescindere dal legame formale, trova pur sempre causa nei vincoli di solidarietà ed affettività esistenti nell’ambito di modelli familiari”;
  • con l’art. 3 Cost., poiché differenziando sulla sola condizione personale di «coniuge», «unito di fatto» e «convivente» si realizzerebbe “una vera e propria discriminazione tra soggetti che, in modo continuativo, esplicano la medesima attività lavorativa nell’impresa familiare”, finendo per “porre un ostacolo di ordine economico all’uguaglianza dei cittadini”;
  • con l’art. 4 Cost., in quanto tale immotivata discriminazione avrebbe un impatto tra “il lavoro, che non è fine in sé o mero strumento di guadagno, ma anche strumento di affermazione della personalità del singolo oltre che garanzia di sviluppo delle capacità umane e del loro impiego, ed i valori di effettiva libertà e dignità di ogni persona”;
  • con gli artt. 35 e 36 Cost., in quanto, contrariamente al carattere residuale della «impresa familiare» si “lascerebbe prive della tutela riconosciuta in presenza di un legame formale, prestazioni lavorative rese nell’ambito di un rapporto di convivenza more uxorio mosse dal medesimo spirito di solidarietà che caratterizza il lavoro coniugale”.

Le Sezioni Unite non intendono infatti negare le differenze esistenti tra la condizione del coniuge e quella del convivente more uxorio, ma se la ratio dell’istituto dell’impresa familiare sta nel “rifiuto della sia pur presunta gratuità della prestazione lavorativa resa nell’ambito di una certa relazione sociale, di vita, di affetti e di solidarietà”, allora non si vede perché tale ratio debba fermarsi ai soggetti di cui al comma 3 dell’art. 230 bis c.c., quando invece – in concreto – esistono certamente situazioni in tutto e per tutto analoghe e parimenti bisognose di una tutela «piena», simile a quella enucleata dall’art. 230 bis c.c. Secondo le Sezioni Unite, difatti, “se l’art. 230-bis è preordinato alla protezione del bene “lavoro” in ogni sua forma, questo bene non muta a seconda del soggetto che lo svolge, per cui, senza dover porre sullo stesso piano coniugio e convivenza more uxorio, si tratterrebbe di riconoscere un particolare diritto al convivente all’interno di un istituto che non può considerarsi eccezionale avendo una funzione residuale e suppletiva, diretta ad apprestare una tutela minima e inderogabile a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono negli aggregati familiari e che in passato vedevano alcuni membri della comunità familiare esplicare una preziosa attività lavorativa, in forme molteplici, senza alcuna garanzia economica e giuridica”.

La decisione della Corte Costituzionale

Per decidere la q.l.c., la Consulta prende le mosse dall’evoluzione normativa e giurisprudenziale degli ultimi cinquant’anni osservando come, progressivamente quanto inesorabilmente, tale sviluppo sia convergente nel dare “piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto”. Per quanto sussistano ancora differenze tra le varie formazioni familiari (la scelta del Costituente è quella dell’art. 29 Cost., ossia della famiglia fondata sul matrimonio), la Corte ritiene che queste debbano essere “recessive” quando sono in gioco i diritti fondamentali del convivente, tra i quali rientrano altresì “il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), che, quando reso nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale protezione, che in ambito di impresa familiare”.

È un dato di fatto - prosegue la Corte - che il soggetto che presta lavoro nell’impresa del proprio convivente si trovi in una situazione in tutto e per tutto assimilabile a quella del coniuge o dell’unito civilmente, così come a quella del parente o dell’affine, e cioè che versi in una condizione in cui “l’affectio maritalis fa sbiadire l’assoggettamento al potere direttivo dell’imprenditore, tipico del lavoro subordinato, e la prestazione lavorativa rischia di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito.

Ma se questa è la condizione di fatto sottesa alla normativa di cui all’art. 230 ter  c.c., la stessa non può che essere costituzionalmente illegittima per non disciplinare in maniera omogenea situazioni identiche e, anzi, per connotare di un carattere potenzialmente discriminatorio una normativa – quale quella dell’impresa familiare – che opera in via residuale per evitare distorsioni e abusi del sistema. Secondo la Consulta, “Risulta pertanto la violazione del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.). Anche l’art. 3 Cost. risulta violato 'non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente' (sentenza n. 213 del 2016), ma per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma posta a tutela del diritto al lavoro che va riconosciuto quale strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare (ancora, art. 2 Cost.)”.

Per ovviare a questa stortura, la reductio ad legitimitatem delle disposizioni censurate deve portare all’inserimento anche del "convivente di fatto" nell’elenco dei "familiari" di cui all’art. 230 bis co. 3 c.c. e, di conseguenza, alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’intero art. 230 ter c.c.

Riferimenti normativi:

  • Codice civile, artt. 230, 230 bis, 230 ter
  • Legge 19 maggio 1975, n. 151
  • Legge 20 maggio 2016, n. 76, art. 1 comma 36