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L’Approfondimento - Il trasferimento di azienda: le tutele per i lavoratori ceduti e il sistema di consultazione sindacale

Il regime del licenziamento e delle dimissioni, la conservazione dei diritti presso il cessionario, la contestazione del trasferimento e cenni di gestione fiscale

a cura di Luca Daffra, Marco Marzano - Studio Ichino, Brugnatelli e Associati  | 3 marzo 2022

Con l’art. 2112 c.c., l’ordinamento giuslavorista disciplina le garanzie - sia di natura individuale sia di natura collettiva - che vengono apprestate ai lavoratori interessati dalle vicende circolatorie dell’impresa. A dispetto della sempre maggiore frequenza di tali avvenimenti, l’istituto del trasferimento d’azienda e, ancor di più, quello di un suo ramo, trovano nella loro fase applicativa indirizzi contrastanti tra i giudici interni e gli omologhi europei (la normativa in esame, difatti, deriva dalla direttiva 23/2001/CE). Nel presente contributo, esamineremo il campo di applicazione dell’art. 2112 c.c. e le tutele apprestate ai lavoratori ceduti, nonché il sistema di informativa e consultazione sindacale prescritto dall’art. 47 Legge 428/1990 (anche per le aziende in crisi, nella nuova disciplina del Codice della crisi di impresa di cui al D.Lgs. n. 14/2019 , così come aggiornato dalla Legge n. 147/2021 ), avendo cura di svolgere gli opportuni riferimenti alla giurisprudenza europea e nazionale in materia.

Premessa

Il mutamento della titolarità di un’attività economica organizzata non è un evento rilevante esclusivamente per il diritto societario o per quello commerciale: le vicende circolatorie, difatti, riverberandosi anche sulle posizioni dei lavoratori occupati in quelle aziende, ricevono una specifica e dettagliata disciplina anche di matrice giuslavoristica.

La norma che tratta questa fattispecie è l’art. 2112 c.c., rubricata sub "Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda", che testualmente prevede:

[I]. In caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano.
[II]. Il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Con le procedure di cui agli artt. 410 e 411 del c.c. il lavoratore può consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.
[III]. Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all'impresa del cessionario. L'effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello.
[IV]. Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d'azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all'art. 2119, primo comma.
[V]. Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d'azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l'usufrutto o l'affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento.
[VI]. Nel caso in cui l'alienante stipuli con l'acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo d'azienda oggetto di cessione, tra appaltante e appaltatore opera un regime di solidarietà di cui all'art. 29, comma 2, del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276.

La disposizione in parola ha carattere imperativo e prevede che, quando l’originario datore di lavoro (il “cedente”) trasferisca a terzi la propria azienda o un suo ramo autonomo, i sottesi contratti di lavoro passino automaticamente e senza soluzione di continuità (nonché senza la necessità del lavoratore ceduto) in capo all’acquirente (il “cessionario”), senza che ciò possa determinare il licenziamento di quei lavoratori e, anzi, prevedendo espressamente che nel passaggio siano conservate le condizioni economiche e normative così come già maturate.

Senza anticipare eccessivamente quanto si vedrà nel prosieguo del contributo (ma cercando già di fornire una prima chiave di lettura per l’istituto), vale la pena ricordare che la norma in questione ha una forte derivazione europea: seguendo l’avvicendarsi delle direttive 1977/187, 1998/50 e, in ultimo, della dir. 23/2001, l’articolo - già presente nel Codice del 1942 - è stato prima modificato dall'art. 47 Legge n. 428/1990, poi dall'art. 1 D.Lgs. n. 18/2001 e, infine, dall’art. 32 D.Lgs. n. 276/2003 (a sua volta poi novellato dall’art. 9 D.Lgs. n. 251/2004).

La tensione tra i due poli normativi è chiaramente avvertibile nella fase applicativa della fattispecie, tant’è che la norma è finita con il diventare una delle più controverse dell’intero ordinamento giuslavoristico.
Nonostante la moltiplicazione delle vicende circolatorie e la conseguente imponente produzione giurisprudenziale, manca, ad oggi, un quadro univoco di riferimento. Anzi, è piuttosto possibile osservare come l’interpretazione dei giudici nazionali si scontri con quella degli omologhi europei, dimostrando come i due sistemi muovano da premesse diametralmente opposte: semplificando all’estremo, si potrebbe affermare che la Corte di Giustizia è promotrice di un’interpretazione estensiva dell’istituto, sia in ragione del favor europeo alla circolazione dei complessi aziendali in sé, sia per la garanzia di portabilità (e continuazione) del rapporto di lavoro prevista dalla direttiva; viceversa, la giurisprudenza interna ha un approccio più cautelativo, volto a evitare che questa normativa possa impropriamente divenire una “forma incontrollata di espulsione di frazioni” dell’impresa “non coordinate tra loro” (così Cass. 21 settembre 2017, n. 22005), favorendo così quegli strumenti che consentono di rafforzare la stabilità del rapporto in essere con il cedente.

Fatta questa doverosa premessa, vedremo, in seguito, il campo di applicazione della predetta normativa (incluso il concetto di ramo d’azienda, per come interpretato dalla giurisprudenza), nonché il sistema di garanzie individuali, collettive e procedurali poste a tutela dei lavoratori coinvolti nel trasferimento d’azienda, avendo cura di svolgere gli opportuni riferimenti alla giurisprudenza europea e nazionale in materia.

Il concetto di “attività economica organizzata”

A norma del suo comma 5 (così come modificato dal D.Lgs. n. 18/2001), la fattispecie di cui all’art. 2112 c.c. trova applicazione ogniqualvolta si verifichi il trasferimento della titolarità di “un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro” (anche solo “a.e.o.”).

La definizione non coincide esattamente con quella di “azienda” offerta dall’art. 2555 c.c. (ossia “il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa”), tant’è che parte della dottrina ritiene che l’art. 2112 c.c. ne introduca un concetto autonomo, rilevante esclusivamente a fini giuslavoristici.

Il mancato riferimento ai "beni organizzati", però, non significa che la fattispecie sia applicabile anche alla mera continuazione di un’attività da parte di terzi quando manca il trasferimento anche di quei mezzi – materiali e immateriali – necessari all’esercizio di tale attività. Ricordiamo che la dir. 2001/23/CE parla infatti di “entità economica organizzata”, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia l’oggetto del trasferimento viene inteso come quel complesso di persone e/o elementi che, organizzato in modo stabile, permette l’esercizio di un’attività economica finalizzata al perseguimento di un determinato risultato.

La Suprema Corte ha precisato che non configura trasferimento ex art. 2112 c.c. la mera cessazione dell’attività da parte di un imprenditore e l’avvio di un’attività analoga da parte di un altro, quando tale avvenimento non è affiancato dalla cessione dei beni strumentali necessari allo svolgimento dell’attività stessa: “si configura trasferimento di azienda in tutti i casi in cui, ferma restando l’organizzazione del complesso dei beni destinati all’esercizio dell’attività economica, ne muta il titolare in virtù di una vicenda giuridica riconducibile al fenomeno della successione in senso ampio. Il trasferimento non sussiste nel caso di esercizio successivo, da parte di due imprese, nella medesima attività produttiva (nella specie prosecuzione di alcuni o anche di tutti i contratti di appalto già in carico alla ditta individuale), senza alienazione del complesso dei beni” (Cass. 1 ottobre 2012, n. 16641 ; cfr. altresì Cass. 1 ottobre 2015, n. 1961, Cass. 30 settembre 2013, n. 22392, Cass. 7 aprile 2010, n. 8262 ).

Viceversa, se è necessario che l’a.e.o. sia un’entità produttiva nel momento del trasferimento, ai fini della validità dell’operazione non è richiesta alcuna prognosi circa le chance di prosecuzione dell’attività economica nel futuro.

Nella giurisprudenza della Suprema Corte si è così precisato che non è onere del cedente una verifica circa la capacità e la potenzialità imprenditoriale del cessionario, in quanto non risulta convenuto “in frode alla legge, né concluso per motivo illecito – non potendo ritenersi tale il motivo, perseguito con un negozio traslativo, di addossare ad altri la titolarità di obblighi ed oneri conseguenti –, il contratto di cessione dell’azienda a soggetto che, per le sue caratteristiche imprenditoriali ed in base alle circostanze del caso concreto, renda probabile la cessazione dell’attività produttiva e dei rapporti di lavoro” (Cass. 26 gennaio 2012, n. 1085 ; cfr. altresì Cass. 8 gennaio 2016, n. 164 , Cass. 27 ottobre 2015, n. 21915, Cass. 20 marzo 2013, n. 6969 ).

È infine irrilevante che l’a.e.o. persegua o meno uno scopo di lucro, dato che la disciplina in commento si applica anche ai trasferimenti di un’a.e.o. realizzati da soggetti non imprenditori (per esempio liberi professionisti o associazioni): ciò che conta è che l’oggetto della circolazione sia un’organizzazione di fattori produttivi idonei a produrre un servizio o un prodotto apprezzabile economicamente, quantomeno sotto un profilo dei mezzi, degli strumenti e della forza lavoro utilizzati nella sua realizzazione (Cass. 7 dicembre 2017, n. 29422 , Cass. 4 settembre 2021, n. 14821, Cass. 7 aprile 2010, n. 8262 ).

Il medesimo comma 5 richiede che l’a.e.o. sia “preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”.

Per verificare che l’oggetto del trasferimento realizzi questo ulteriore presupposto (escludendo al tempo stesso l’applicabilità della successione a titolo particolare di ogni singolo rapporto), la giurisprudenza ritiene necessario un controllo di approssimazione, da condursi seguendo una logica case by case e a geometria variabile: occorre così emarginare in concreto alcuni elementi indiziari e aspetti caratteristici della specifica impresa coinvolta che, complessivamente valutati, consentano di appurare l’esistenza e la preesistenza dell’a.o.e. intesa quale complesso strumentale e funzionalmente destinato a realizzare una determinata attività.

Nella giurisprudenza di Cassazione è ricorrente la seguente massima: “in tema di trasferimento di azienda, ai fini dell’accertamento dell’identità dell’entità economica trasferita va preso in considerazione il complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l’operazione, tra le quali rientrano il tipo di impresa, la cessione o meno di elementi materiali, il valore degli elementi immateriali al momento della cessione, la riassunzione o meno delle parti più rilevanti del personale a opera del nuovo imprenditore, il grado di somiglianza delle attività esercitate prima e dopo la cessione” (Cass. 17 agosto 2018, n. 20772, Cass. 12 aprile 2016, n. 7121, Cass. 6 aprile 2016, n. 6693).

La giurisprudenza comunitaria ha tuttavia precisato come il requisito del mantenimento “dell’organizzazione specifica imposta dall’imprenditore ai diversi fattori di produzione trasferiti” non debba interpretarsi in maniera eccessivamente rigida, dato che l’elemento essenziale è la conservazione del “nesso funzionale di interdipendenza e complementarità” tra gli elementi trasferiti (cfr., in questo senso, CGUE 12 febbraio 2009 C-466/07 Klarenberg; cfr. altresì Cass. 15 marzo 2017, n. 6770).

Tramite questa ricostruzione indiziaria e relativa di a.e.o., fortemente dipendente dalla tipologia di business in concreto svolto dall’entità, è stato più volte ritenuto applicabile il disposto dell’art. 2112 c.c. anche quando l’oggetto del trasferimento sia un complesso cd. "smaterializzato", ossia un’organizzazione (principalmente o esclusivamente) costituita da rapporti di lavoro finalisticamente aggregati per realizzare una specifica attività economica

La giurisprudenza interna ha più volte ricordato come “è configurabile il trasferimento di un ramo di azienda nel caso in cui la cessione abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare “know how” (o, comunque, dall’utilizzo di “copyright”, brevetti, marchi, etc.), con la conseguenza che la cessione realizza la successione legale nel rapporto di lavoro del cessionario senza bisogno di consenso dei contraenti ceduti” (Cass. 23 maggio 2017, n. 12919 , Cass. 7 marzo 2013, n. 5678 ; cfr. altresì Cass. 19 gennaio 2017, n. 1316 , Cass. 20 luglio 2016, n. 14972).

Eppure, il requisito del know how valorizzato dalla predetta giurisprudenza, non appare avere un corrispettivo nei pronunciamenti della Corte di Giustizia, che è anzi favorevole a riconoscere l’applicabilità della fattispecie anche per i trasferimenti di gruppi di lavoratori, tra loro collegati, quando l’attività esercitata non richieda particolari patrimoni materiali e/o immateriali, come nelle attività labour intensive (CGUE 6 luglio 2011 C-108/10 Scattolon; CGUE 10 dicembre 1998 cause riunite C-127/96, C-229/96, C-74/97, Hernàndez Vidal): sulla base di questo orientamento, la giurisprudenza europea ha ritenuto che la riassunzione di una parte quantitativamente e qualitativamente essenziale di ex dipendenti possa determinare l’applicazione della disciplina sul trasferimento d’azienda.

A livello interno, tale orientamento risulta quasi inedito, ad eccezione di una pronuncia di merito nella quale è stata ritenuta non dovuta la prova di una comunanza di know how specialistico del personale trasferito: “La nozione di ramo di azienda ai fini dell’applicazione dell’art. 2112 c.c. deve ricavarsi dalla giurisprudenza europea, dalla Direttiva n. 2001/23/CE e dalle altre norme europee in materia in base alle quali sono da considerare quali imprescindibili elementi di individuazione del ramo la preesistenza di una entità stabile organizzata in grado di fornire un servizio economicamente utile a qualcuno senza rilevanti apporti esterni e il trasferimento di anche solo una parte di tale entità, che però ne rappresenti l’essenza in termini di utilità funzionale ed economica” (Trib. Roma 5 marzo 2018 n. 1647 in Riv. It. Dir. Lav., 2018, 658).

Il “Ramo d’azienda” nella giurisprudenza interna e europea

La disciplina garantista di cui all’art. 2112 c.c. trova piena attuazione anche nelle ipotesi in cui l’oggetto del trasferimento non sia l’intero plesso aziendale ma soltanto un’“articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”, ossia il cd. “ramo d’azienda”.

Per definire la fattispecie, è necessario rifarsi ai suoi plurimi elementi costitutivi: l’idoneità del ramo a costituire un’attività economica organizzata, al possesso di una propria autonomia funzionale e, secondo il maggioritario orientamento della giurisprudenza interna, alla sua preesistenza rispetto al momento del trasferimento. Vedremo i dettagli nel prosieguo di trattazione.

Come l’azienda, anche il suo ramo deve potersi anzitutto qualificare come “articolazione … di un’attività economica organizzata”: deve, cioè, costituire la ramificazione di una realtà più grande, e cioè l’azienda, ed essere a sua volta direttamente orientato alla realizzazione di beni o servizi per il tramite di un’organizzazione di fattori produttivi, materiali e/o immateriali.

In questo senso, come anche già rilevato per l’azienda, anche l’individuazione del ramo deve seguire un approccio per approssimazione, case by case, che tenga conto della tipologia di beni o servizi a cui il ramo è funzionale, così come della metodologia industriale ivi applicata (tenendo altresì conto che ben possono sussistere rami cd. “smaterializzati”, cfr. Cass. 16 marzo 2021, n. 7364 e la già citata Cass. 23 maggio 2017, n. 12919): l’identificazione di queste variabili è un passaggio fondamentale ai fini della corretta ricostruzione della fattispecie e consente, se del caso, di riconoscere il ramo anche quando la “cessione abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare “know how” (Cass. 23 maggio 2017, n. 12919 cit. in precedenza).

L’elemento appena visto è fondamentale ma non certo sufficiente, dato che il requisito indispensabile (così App. Milano 4 dicembre 2020, n. 617, ovvero costitutivo come in Cass. 4 agosto 2021, n. 22249) del ramo è quello della sua "autonomia funzionale".

Nella giurisprudenza di Cassazione, tale requisito viene generalmente così ricostruito: “Costituisce elemento costitutivo della cessione del ramo di azienda prevista dall'art. 2112 c.c. l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi e quindi di svolgere — autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario — il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente al momento della cessione” (Cass. 19 gennaio 2017, n. 1316 ; nei medesimi termini cfr. Cass. 4 agosto 2021, n. 22249, Cass. 8 novembre 2018, n. 28593 , Cass. 19 gennaio 2017, n. 1316 , Cass. 26 agosto 2016, n. 17366 ).

Al di là della massima ricorrente, l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza interna – in linea con l’ipotesi ermeneutica che la anima (cfr. le premesse) – è decisamente restrittiva, tendente ad affermare che il ramo cedibile è solo quello che si presenta “come una sorta di piccola azienda in grado di funzionare in modo autonomo e che non deve rappresentare, al contrario, il prodotto dello smembramento di frazioni non autosufficienti e non coordinate tra loro” (in ultimo cfr. Cass. 4 ottobre 2016, n. 19767 e, prima, Cass. 10 gennaio 2004, n. 206).

Orbene, ricordato che per il Legislatore europeo l’autonomia del ramo ben potrebbe anche non conservarsi presso il cessionario (cfr. art. 6 §1 dir. 2001/23/CE) e che secondo la giurisprudenza della CGUE è assolutamente legittimo che il nuovo datore di lavoro – dopo il trasferimento – appresti i cambiamenti necessari alla continuazione dell’attività del ramo (cfr. CGUE 27 aprile 2017, cause riunite C-680/2015 e C-681/2015), l’interpretazione dei giudici interni è apparsa troppo stringente e financo idonea a determinare un’illegittima esclusione dal campo di applicazione dell’art. 2112 c.c. di un gran numero di fattispecie.

Alcuni autori (cfr. Maresca, 2018), hanno così suggerito l’adozione di un concetto di autonomia funzionale "relativa" che, rifuggendo dal concetto di una già "piena autosufficienza produttiva", reputa cedibile anche il ramo che, pur mantenendo una propria autonomia funzionale nella gestione della propria attività, necessiti di essere integrato nell’organizzazione del cessionario per continuare a produrre (per esempio rispetto ai suoi centri decisionali, ai conti economici dell’impresa, alla gestione HR e finanziaria, in modo da partecipare – e completarsi – in maniera organica come nuova parte della preesistente struttura del datore di lavoro).
Si tratta, dunque, di un’autonomia “limitata agli elementi essenziali del ciclo produttivo, ossia agli elementi (materiali e immateriali) direttamente strumentali al tipo di concreta attività imprenditoriale di cui il ramo di azienda vuole essere strumento funzionale e organizzativa, e quindi da intendersi in senso relativo e non assoluto” (così, ma solo in un obiter dictum, Trib. Milano 5 settembre 2018, n. 1590).

Tale interpretazione appare coerente con quella del Giudice europeo, che ha puntualizzato come: “Per quanto riguarda, in secondo luogo, la questione relativa alla sufficiente autonomia di un gruppo di lavoratori …, si deve ricordare che, nel contesto della normativa dell’Unione in tema di mantenimento dei diritti dei lavoratori, la nozione di autonomia si riferisce ai poteri, riconosciuti ai responsabili del gruppo di lavoratori di cui trattasi, di organizzare, in modo relativamente libero e indipendente, il lavoro in seno al citato gruppo e, in particolare, di impartire istruzioni e distribuire compiti ai lavoratori subordinati appartenenti a tale gruppo, e ciò senza intervento diretto da parte di altre strutture organizzative del datore di lavoro” (CGUE 6 settembre 2011, C‑108/10, Scattolon c. Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca).

Tuttavia, obiter dictum a parte, tale interpretazione non sembra essere stata recepita a livello interno: per tali motivi, nell’esame circa la sussistenza o meno del ramo, ci sembra da suggerirsi un approccio cautelativo e informato agli attuali orientamenti della giurisprudenza della Suprema Corte.
A tal fine, sono indici dell’insussistenza del ramo (ossia della sua mancanza di autonomia) la circostanza per cui i lavoratori trasferiti non avessero in passato già svolto in maniera autonoma l’attività ceduta e quella per cui nel ramo risultano inclusi prestatori non addetti in precedenza alle attività oggetto di trasferimento.

Ancora più dibattuta, se possibile, è la questione circa la "preesistenza" - temporale o funzionale - del ramo, requisito espunto dal testo dell’art. 2112 comma 5 c.c. in seguito alla novella di cui all’art. 32 comma 1 D.Lgs. 276/2003 (ma, come vedremo, ancora ben presente nelle decisioni giudiziali): va ricordato, difatti, che la precedente formulazione, anziché riconoscere il ramo in quell’articolazione funzionalmente autonoma “identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”, richiedeva che la stessa articolazione fosse anche “preesistente come tale al trasferimento” e che conservasse “nel trasferimento la propria identità”, senza alcun riferimento alle condotte delle parti.

Nella vigenza di quella formulazione, la giurisprudenza della Suprema Corte aveva fornito un'interpretazione “cronologica” del requisito, richiedendo – ai fini della legittima applicazione dell’art. 2112 c.c. – che il ramo ceduto esistesse come articolazione autonoma dell’azienda già in epoca anteriore al trasferimento (appare evidente che tale opzione ermeneutica sia diretta ad evitare derive fraudolenti come con il fenomeno del cd. cherry picking).

La giurisprudenza interna, difatti, precisava come: “deve intendersi [per ramo d’azienda] ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, il che presuppone una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza del rapporto ad un ramo di azienda già costituito” (Cass. 1 febbraio 2008, n. 2489 )

Neppure questa interpretazione trova una propria omologa a livello europeo. Anzi, nonostante esista un requisito di "conservazione" anche nella definizione di trasferimento di cui all’art. 1 comma 1 lett. b) dir. 2001/23/CE - che individua il proprio campo di applicazione in ogni trasferimento “di un’entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria” –, si segnala che proprio la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha ritenuto legittima l’opzione legislativa italiana successiva al 2003 (ossia la soppressione del requisito della preesistenza), anche se potenzialmente idonea a estendere la disciplina in commento anche a quelle operazioni che coinvolgano un’entità che “non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento”.

A detta della Corte di Giustizia, la direttiva 2001/23/CE “non osta ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale [ossia l’art. 2112 c.c. dopo le modifiche del 2003], la quale, in presenza di un trasferimento di una parte di impresa, consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell’ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento” e che la stessa direttiva “consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell’ipotesi in cui, dopo il trasferimento della parte di impresa considerata, tale cedente eserciti un intenso potere di supremazia nei confronti del cessionario” (Corte Giustizia, 6 marzo 2014, C-458/12 – Amatori e altri c. Telecom Italia S.p.a. e Telecom Italia Information Technology S.r.l.).
Il Giudice europeo, con la predetta sentenza, ha ritenuto legittima la normativa italiana poiché realizza un trattamento di miglior favore e di più pregnante garanzia per i lavoratori coinvolti dall’operazione (ossia il passaggio automatico alle dipendenze del cessionario, anziché ricadere nell’area di applicazione dell’art. 1406 c.c. con la necessità del contraente ceduto): in altri termini, secondo la CGUE, quando il ramo trasferito risulta genuinamente autonomo da un punto di vista funzionale, il requisito della preesistenza può essere interpretato in termini più estensivi.

Eppure, né la pronuncia appena ricordata né – prima ancora – la modifica normativa del 2003, hanno sortito mutamenti significativi dell’orientamento della Suprema Corte in materia di trasferimento di ramo. Nelle pronunce in materia, difatti, si è continuato a ritenere che tale operazione è legittima solo se riguarda un’articolazione aziendale dotata di un’autonomia funzionale e che sia tale già in precedenza al trasferimento; al tempo stesso, il trasferimento è legittimo quando il ramo, una volta ceduto, conserva la propria autonomia e può essere impiegato dal cessionario per svolgere l’attività economica trasferita senza integrazioni di rilievo.

Ne deriva che non solo è necessaria una "preesistenza" del ramo, ma che questa deve sussistere sia sotto il profilo temporale sia sotto quello funzionale.

I timori dei giudici interni – diametralmente opposti a quelli di cui alla sentenza Amatori – sono efficacemente espressi dalle pronunce della Suprema Corte: “[per ramo d’azienda] deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, il che presuppone una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza del rapporto ad un ramo di azienda già costituito” (Cass. 1 febbraio 2008, n. 2489 ).

A dire il vero, anche in relazione alla sentenza Amatori non è mancata una certa autorevole dottrina (Cester, 2014) che, proprio in commento a quella pronuncia, ha osservato come il requisito dell’“autonomia funzionale” richiesto dall’art. 2112 comma 5 c.c. per l’esistenza del ramo “non può prescindere del tutto da una qualche precedente sperimentazione, che quella funzionalità abbia attestato”: in altri termini, senza una minima preesistenza non può aversi un ramo d’azienda funzionalmente autonomo.

Tale interpretazione è ormai recepita dalla giurisprudenza della Suprema Corte che, in materia, così si esprime: “L'elemento costitutivo dell'autonomia funzionale va quindi letto in reciproca integrazione con il requisito della preesistenza, e ciò anche in armonia con la giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo la quale l'impiego del termine "conservi" nell'art. 6, par. 1, commi 1 e 4 della direttiva 2001/23/CE, "implica che l'autonomia dell'entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento” (Cass. 4 agosto 2021, n. 22249)

Il ruolo che il comma 5 riconosce a cedente e cessionario, dunque, non è altro che quello di riconoscere che l’articolazione aziendale oggetto di cessione possiede, perlomeno al momento della cessione, una propria capacità produttiva autonoma: se questo non è verificato in concreto, la mera volontà negoziale non determinerà comunque l’applicazione legittima dell’art. 2112 c.c.

In conclusione, in occasione della cessione del ramo occorrerà aver riguardo a queste circostanze:
- in mancanza di un orientamento della giurisprudenza interna simile a quello dei giudici europei, si ritiene opportuno che il ramo d’azienda oggetto di cessione sia preesistente a questa (che non vuol dire che sia sempre esistito, ma più pragmaticamente che l’“individuazione” dello stesso sia effettuata, attraverso un’apposita organizzazione, almeno qualche mese prima della sua cessione);
- all’interno del ramo d’azienda che si intende cedere dovrà in ogni caso sussistere, un insieme di collegamenti tra beni e lavoratori, o – secondo un certo orientamento giurisprudenziale - anche solo tra lavoratori, tali da consentire l’esercizio di un’attività economica destinata alla produzione ed allo scambio di beni e servizi.

Le operazioni rilevanti ai fini dell’applicazione della norma

Sempre il comma 5 dell’art. 2112 (cc001942031600262ar2112ac005a) c.c., dispone che la fattispecie in esame risulta integrata da “qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità… a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda”, sancendo così l’irrilevanza dello strumento giuridico utilizzato nella vicenda circolatoria.

Nonostante il riferimento espresso alla "cessione contrattuale o fusione" – tenuto conto anche degli orientamenti della giurisprudenza europea in materia – la normativa in esame viene interpretata dai giudici interni in maniera assolutamente estensiva, ritenendo l’istituto applicabile ogniqualvolta si verifichi la sostituzione nella titolarità dell’entità economica organizzata, a prescindere dallo strumento tecnico-giuridico attuato. Si considera un’operazione rilevante ai fini dell’art. 2112 c.c.:

- qualsiasi vicenda negoziale, come compravendita, fusione, scissione, incorporazione, affitto, usufrutto di azienda;

A proposito della fattispecie della scissione (ipotesi non espressamente citata dall’art. 2112 c.c.), la Suprema Corte ha affermato come “anche nel caso di scissione, totale o parziale, di società, ex art. 2504 septies ss. c.c. può configurarsi trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c., ove si accerti, con riferimento alle modalità specifiche con cui si è svolta l’operazione di scissione, che il complesso organizzato dei beni dell’impresa, nella sua entità obiettiva, sia passato, in tutto o in parte, ad un diverso titolare” (Cass. 6 ottobre 1998, n. 9897; cfr. altresì Cass. 29 settembre 2015, n. 19303, Cass. 13 maggio 2011 n. 10614).

- trasferimento realizzato tramite fattispecie complessa, così nel caso in cui la vicenda circolatoria si realizzi mediante una pluralità di contratti, pur se succedutisi in un arco temporale significativo (Cass. 4 aprile 2003, n. 12909);

L’applicazione dell’art. 2112 c.c. “non è esclusa, con riferimento all’attività dell’agente di assicurazioni in gestione libera, nell’ipotesi in cui il trasferimento di azienda abbia luogo in due fasi, connesse tra loro, costituite dalla revoca del mandato da parte del preponente e dalla retrocessione a quest’ultimo del complesso dei beni aziendali organizzato per la gestione dell’agenzia e dal successivo trasferimento di esso, da parte dello stesso preponente, a nuovi agenti, ove l’entità economica preesistente conservi la propria identità e la gestione dell’azienda venga proseguita senza interruzione dai nuovi titolari con lo stesso personale impiegato prima del trasferimento” (Cass. 21 agosto 2015, n. 17063).

- quelle ipotesi in cui la circolazione si verifica anche in difetto di un rapporto negoziale diretto tra cedente e cessionario, come nel caso del trasferimento come conseguenza di atto autoritativo della PA (Cass. 25 novembre 2019, n. 30663, Cass. 1° ottobre 2015, n. 19631).

Con particolare riferimento alla fattispecie dell’affitto d’azienda, giova ricordare – anche a mente del contenzioso sviluppatosi a riguardo – che la normativa e la procedura dell’art. 2112 c.c. trovano applicazione anche nel momento della retrocessione dell’azienda precedentemente oggetto dell’affitto.

Sul punto, la Suprema Corte ha anche recentemente precisato come “In materia di trasferimento d'azienda, la disciplina dell'art. 2112 c.c. si applica anche nell'ipotesi di cessazione del contratto di affitto d'azienda e conseguente retrocessione della stessa all'originario cedente, purché quest'ultimo prosegua l'attività già esercitata in precedenza, mediante l'immutata organizzazione aziendale, con onere della prova a carico di chi invoca gli effetti dell'avvenuto trasferimento” (Cass. 1° ottobre 2018, n. 23765).

Viceversa, non è una vicenda rilevante ai fini della norma in commento quella che riguarda il trasferimento del pacchetto azionario di maggioranza della società di capitali, dato che non si determina così nessuna sostituzione nella titolarità dei rapporti di lavoro (Cass. 21 agosto 2004 n. 16500), né quella che riguarda la trasformazione della società in seguito alla sua privatizzazione (Cass. 23 dicembre 2016, n. 26953, Cass. 25 novembre 2014, n. 25021).

In questo senso, in giurisprudenza è stato rilevato come “il trasferimento del pacchetto azionario di maggioranza di una società di capitali non integra gli estremi del trasferimento di azienda ai sensi dell’art. 2112 c.c., in quanto non determina la sostituzione di un soggetto giuridico ad un altro nella titolarità dei rapporti pregressi, ma solo modifica gli assetti azionari interni sotto il profilo della loro titolarità, ferma restando la soggettività giuridica di ogni società anche se totalmente eterodiretta” (Cass. 12 marzo 2013, n. 6131).

Il rapporto con la fattispecie del cambio appalto

Una possibile fonte di criticità sta nella distinzione tra l’istituto del trasferimento d’azienda, come sopra definito, e quella del cambio appalto, che si realizza quando, in seguito alla cessazione di un appalto di servizi, questi vengono resi da un nuovo appaltatore in forza di un nuovo negozio concluso con il medesimo committente.

Alla luce delle osservazioni di cui ai paragrafi precedenti, si dovrebbe concludere per l’applicazione dell’art. 2112 c.c. solo in quelle ipotesi in cui, anche a prescindere da un rapporto negoziale tra gli appaltatori succedutisi, si determina in concreto una traslazione dal primo al secondo di quell’entità economica organizzata che realizzava il servizio.

Tale interpretazione, tuttavia, veniva sostanzialmente smentita dal dettato originario dell’art. 29, comma 3, D.Lgs. n. 276/2003, norma che sembrava escludere a priori l’applicabilità del trasferimento d’azienda nei cambi appalto quando l’assunzione del personale già in forza presso la commessa era da ricondursi a un obbligo legale o contrattuale (Cass. 19 gennaio 2002, n. 572). Seppur una certa giurisprudenza (Trib. Roma 9 giugno 2005) aveva già fornito un’interpretazione adeguatrice della norma alla ratio della direttiva europea (che non ammette l’aprioristica esclusione di fattispecie dal campo di applicazione), l’avvio di una procedura pre-infrazione a carico dell’Italia ha portato il Legislatore, con l’art. 30 Legge n. 122/2016, a modificare il precedente dettato normativo: la conseguente riformulazione, tuttora attuale, prevede come “l’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”.

Anche in relazione a fattispecie sorte nel vigore della precedente disciplina, la giurisprudenza di legittimità precisava come: “Nell'ipotesi di successione di un imprenditore ad un altro in un appalto di servizi non esiste un diritto dei lavoratori licenziati dall'appaltatore cessato al trasferimento automatico all'impresa subentrante, atteso che, per l'applicazione dell' art. 2112 c.c. occorre accertare in concreto il passaggio di beni di non trascurabile entità, nella loro funzione unitaria e strumentale all'attività di impresa, o almeno del know-how o di altri caratteri idonei a conferire autonomia operativa ad un gruppo di dipendenti, altrimenti ostandovi il disposto dell' art. 29, comma 3, del D.Lgs. n. 276 del 2003 , non in contrasto, sul punto, con la giurisprudenza eurounitaria che consente, ma non impone, di estendere l'ambito di protezione dei lavoratori di cui alla direttiva n. 2001/23/CE ad ipotesi ulteriori rispetto a quella del trasferimento di azienda” (Cass. 29 marzo 2019, n. 8922 ).

Per la non applicabilità dell’istituto di cui all’art. 2112 c.c. (e dunque per escludere che il personale già occupato transiti conservando anzianità, inquadramento contrattuale, livelli retributivi, etc.), l’organizzazione del successivo appaltatore subentrato dovrà presentare elementi di discontinuità rispetto all’esecutore originario.

Come intuibile, tale elemento dovrà essere definito in negativo, potendosi individuare indici di discontinuità in tutti quei fattori che consentano di escludere che, in seguito al cambio di appaltatore, si sia mantenuta la medesima "entità economica organizzata": in questo senso, il mero passaggio del personale adibito all’appalto al nuovo imprenditore non è sufficiente per concludere per l’applicabilità dell’art. 2112 c.c. senza una valutazione circa le modalità concrete dell’organizzazione produttiva e dell’esecuzione del servizio.

La giurisprudenza di merito che ha avuto modo di applicare la norma novellata ha pertanto osservato come: “In applicazione dell'art. 29, comma 3, D.Lgs. 276/2003, la successione nell'appalto di servizi non si configura quale trasferimento di azienda ai sensi dell'art. 2112 c.c. laddove vi siano elementi di discontinuità che determinano una specifica attività d'impresa. Nella fattispecie gli strumenti utilizzati (ritirati all'atto della cessazione dell'appalto) e gli aspetti organizzativi dimostrano tale discontinuità” (Trib. Milano 20 aprile 2021; cfr. altresì Trib. Roma 10 giugno 2020, n. 3156, Trib. Bologna 7 luglio 2017, n. 5941).

Il regime del licenziamento e delle dimissioni connessi al trasferimento

Come si è detto nell’apertura del presente contributo, l’effetto principale dell’art. 2112 c.c. sui rapporti di lavoro ceduti è che questi “continua[no] con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano” (comma 1), senza necessità del consenso del dipendente trasferito (a differenza dell’istituto civilistico della cessione di contratto ex art. 1406 c.c.).

Questa tutela è poi presidiata dal comma 3 del medesimo art. 2112 c.c., che puntualizza come “il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento” e, al tempo stesso, consente le dimissioni per giusta causa in caso di “sostanziale modifica [delle condizioni di lavoro] nei tre mesi successivi al trasferimento d'azienda”: sarebbe difatti ben poca cosa prevedere una successione ex lege nella titolarità del rapporto di lavoro se il cedente potesse legittimamente licenziare lavoratori sgraditi solo per dar corso all’operazione, ovvero se il cessionario potesse immediatamente stravolgere le condizioni contrattuali maturate dagli stessi.

Ciò, tuttavia, non determina che il licenziamento intimato in stretta connessione con il trasferimento sia, ex sé, nullo perché conducibile all’atto emulativo o a quello in frode alla legge (perlomeno fino a che non è seguito dall’immediata riassunzione presso il cessionario, ma a condizioni peggiorative: cfr. Cass. Cass. 27 marzo 2013, n. 7665).
A tal riguardo, si segnala come la giurisprudenza abbia precisato che “In caso di cessione d'azienda, l'alienante conserva il potere di recesso attribuitogli dalla normativa generale, sicché il trasferimento, sebbene non possa esserne l'unica ragione giustificativa, non può impedire il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sempre che abbia fondamento nella struttura aziendale autonomamente considerata e non nella connessione con il trasferimento o nella finalità di agevolarlo; né deve ritenersi - qualora, nell'imminenza del trasferimento dell'azienda, l'imprenditore alienante receda dal rapporto di lavoro nei casi in cui detta facoltà gli sia attribuita - che nel suo esercizio in concreto l'imprenditore ponga in essere un atto emulativo o in frode alla legge, oppure in violazione dei principi di correttezza e buona fede a norma degli artt. 1175 e 1375 c.c. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di appello che aveva ritenuto prescritta l'azione di impugnativa del licenziamento, proposta a distanza di otto anni dalla relativa intimazione ad opera dell'azienda cedente, sul presupposto della annullabilità del recesso e non della sua nullità ex art. 2112, comma 4 c.c. )” (Cass. 11 maggio 2018, n. 11410; cfr. altresì Cass. 4 febbraio 2019, n. 3186 , Cass. 23 maggio 2017, n. 12919).

L’orientamento giurisprudenziale più recente, scartata la risalente ipotesi di nullità per contrasto alla norma imperativa di cui all’art. 2112 comma 3 c.c., tende a inquadrare la fattispecie nella sfera dell’annullabilità del licenziamento per manifesta infondatezza delle ragioni organizzative addotte alla base del recesso.

Sul punto, si segnala che “Il licenziamento causato dal trasferimento d'azienda non è nullo ma annullabile per difetto di giustificato motivo oggettivo, in quanto l'art. 2112 c.c. non pone un generale divieto di recesso datoriale ma si limita ad escludere che la vicenda traslativa possa di per sé giustificarlo; ne consegue che il licenziamento intimato in vista di una futura fusione societaria - non ancora attuale al momento del recesso - concretizza l'ipotesi della manifesta insussistenza del fatto ex art. 18, comma 7 , st.lav., come novellato dalla Legge n. 92 del 2012” (Cass. 4 febbraio 2019, n. 3186 ).

Per completezza e sotto un profilo operativo, vale la pena ricordare che la successione nei rapporti che si realizza con il trasferimento determina che il cessionario sarà il soggetto tenuto ad intimare il licenziamento per mancanze a conclusione del procedimento disciplinare avviato dal cedente (Cass. 9 ottobre 2015, n. 20221); al tempo stesso, il lavoratore licenziato dal cedente dovrà impugnare il licenziamento nei confronti del cessionario se nelle more è intervenuto il trasferimento (Cass. 12 aprile 2010, n. 8641 ).

Infine, non risultano significativi apporti della giurisprudenza alla nozione di "sostanziale modifica delle condizioni di lavoro" tale da consentire al lavoratore cessato di rassegnate nei tre mesi successivi le proprie dimissioni per giusta causa: queste dovranno incidere in pejus sul rapporto, e possono avere una natura economica così come organizzativa, purché oggettivamente apprezzabili; secondo la CGUE, anche una legittima riduzione della retribuzione può integrare tale ipotesi (CGUE 11 novembre 2003 C-425/02 Delahaye).

La conservazione dei diritti presso il cessionario

Altra garanzia del lavoratore coinvolto nella cessione dell’azienda è la conservazione, presso il cessionario, dei diritti derivanti dal rapporto di lavoro intercorso con il cedente: vediamo di seguito in dettaglio alcuni correttivi a questa affermazione.

La conservazione riguarda, anzitutto, i trattamenti individuali convenuti con il cedente, i quali seguono il lavoratore nel suo rapporto alle dipendenze del cessionario: si intendono, tra gli altri, il valore della retribuzione, i superminimi e i trattamenti ad personam, gli eventuali benefit convenuti unilateralmente, l’anzianità di servizio (perlomeno intesa come presupposto fattuale per l’applicazione di istituti di legge o di contratto, cfr. Cass. 20 novembre 2015, n. 23795).

Per quanto riguarda i trattamenti economici e normativi derivanti da fonti collettive, il comma 3 prevede il c.d. effetto sostitutivo: “Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all'impresa del cessionario. L'effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello”.

L’applicazione sostitutiva della contrattazione collettiva applicata presso il cessionario, dunque, riguarda i contratti collettivi del medesimo livello: se il cessionario non applica alcun contratto collettivo (né nazionale né integrativo), i lavoratori ceduti conserveranno integralmente la disciplina già applicata presso il cedente; se presso quest’ultimo era in essere un contratto integrativo, questo dovrà essere applicato anche dal cessionario se privo di contrattazione aziendale.

Il suddetto principio vale anche quando il trattamento economico o normativo derivi da un c.d. "uso aziendale" (ossia quei comportamenti datoriali costanti nel tempo che assurgono a diventare per il medesimo vincolanti) invalso presso il cedente: considerato che la giurisprudenza più recente riconduce queste fonti al livello del contratto collettivo aziendale, gli stessi dovranno essere applicati anche del cessionario salvo il caso che questi applichi una diversa contrattazione integrativa (Cass. 17 marzo 2010, n. 6453 ).

È assolutamente possibile che, quando la contrattazione collettiva in essere presso il cessionario risulti inferiore a quella del cedente, l’effetto sostitutivo produca una modifica in pejus del trattamento applicabile al rapporto di lavoro del contraente ceduto (sempre senza alcun effetto retroattivo e impregiudicati i diritti già maturati).

A tal riguardo, la Suprema Corte ha precisato che “L'incorporazione di una società in un'altra è assimilabile al trasferimento d'azienda di cui all'art. 2112 c.c., con la conseguente applicazione del principio statuito dalla citata norma secondo il quale ai lavoratori che passano alle dipendenze dell'impresa incorporante si applica il contratto collettivo che regolava il rapporto di lavoro presso l'azienda cedente solamente nel caso in cui l'impresa cessionaria non applichi alcun contratto collettivo, mentre, in caso contrario, la contrattazione collettiva dell'impresa cedente è sostituita immediatamente ed in tutto da quella applicata nell'impresa cessionaria anche se più sfavorevole, la cui incidenza non è preclusa rispetto a coloro che non abbiano ancora maturato i requisiti per l'attribuzione di un diritto previsti dalle precedenti disposizioni collettive” (Cass. 13 maggio 2011, n. 10614). Inoltre, il comma 2 della norma prevede che “Il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento”.

Su questi crediti già maturati presso l’originario datore di lavoro vige dunque un regime di responsabilità solidale tra il debitore originario e il cessionario, tant’è che per il relativo soddisfo il lavoratore potrà agire indifferentemente sull’uno o sull’altro (senza che l’azione avviata contro il solo cessionario determini un’ipotesi di litisconsorzio necessario).

Questo regime è applicabile a condizione che il rapporto di lavoro sussista alla data di trasferimento, a prescindere dalla conoscenza del cessionario (immaginiamo un lavoratore inerente al ramo che, per un qualsiasi motivo, non viene incluso nell’elenco dei trasferendi): diversamente, ossia nel caso in cui il rapporto fosse già terminato prima dello scorporo, una responsabilità del cessionario andrebbe ricostruita a norma dell’art. 2560 c.c. (ossia utilizzando la responsabilità dell’acquirente per i debiti maturati dall’azienda ceduta, nella misura ammessa dalla norma ossia che risultino dai libri contabili).

In merito alla sorte del TFR, la giurisprudenza più recente – disattendendo la tesi per cui tale credito “sorgerebbe” solo al momento della cessazione del rapporto (argomento che lo porrebbe ad esclusivo carico del cessionario) – ritiene che il cedente sia responsabile, anche successivamente al trasferimento, della quota di trattamento di fine rapporto maturata dal lavoratore quando era alle sue dipendenze.

In questo senso, la Suprema Corte ha precisato come “In caso di cessione d'azienda assoggettata al regime di cui all'art. 2112 c.c. il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore suo dipendente, il cui rapporto prosegua con il datore di lavoro cessionario, per la quota di t.f.r. maturata durante il periodo di rapporto con lui svolto e calcolato fino alla data del trasferimento d'azienda, mentre il datore di lavoro cessionario è obbligato per questa stessa quota soltanto in ragione e nei limiti del vincolo di solidarietà previsto dall'art. 2112 comma 2 c.c. Invece quest'ultimo, quale datore di lavoro cessionario, è l'unico obbligato al t.f.r. quanto alla quota maturata nel periodo del rapporto intercorso successivamente al trasferimento d'azienda” (Cass. 11 settembre 2013, n. 20837 ).

 

Il regime di responsabilità solidale non si estende ai debiti contributivi maturati prima del trasferimento, che restano ancorati alla generale disciplina codicistica di cui all’art. 2560 c.c.

Infine, si ricorda che la seconda parte del comma 2 prevede come “Con le procedure di cui agli artt. 410 e 411 del c.c. il lavoratore può consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro”, consentendo quindi alla volontà del lavoratore ceduto – espressa nelle apposite sedi – di derogare al predetto regime di solidarietà.

 

La contestazione del trasferimento (cenni sulla "doppia retribuzione")

Il lavoratore che intenda contestare il suo illegittimo trasferimento presso un cessionario – ad esempio, reputandosi esterno al ramo ceduto oppure considerando l’entità trasferita carente dei requisiti richiesti per l’applicazione della fattispecie – è tenuto ad osservare per la relativa contestazione il doppio termine di decadenza, così come introdotto dall’art. 32 comma 4 lett. c), Legge n. 183/2010 (il cd. Collegato Lavoro): come per il licenziamento, l’impugnazione stragiudiziale dovrà pervenire al cedente entro 60 giorni dalla data di trasferimento e a questa dovrà seguire il deposito del ricorso ex art. 414 c.p.c. entro i 180 giorni dalla notifica della prima contestazione.

Viceversa, tale decadenza non trova applicazione al lavoratore che intenda contestare la sua mancata inclusione nella platea dei trasferiti, dato che la continuazione del rapporto presso il cessionario è una conseguenza automatica di legge (v. infra per la doppia retribuzione).

Secondo la Suprema Corte “Nell'ipotesi di trasferimento di azienda, la cessione dei contratti di lavoro avviene automaticamente ai sensi dell' art. 2112 c.c. ; pertanto, è solo il lavoratore che intenda contestare la cessione a dover far valere detta impugnazione nel termine di cui all'art. 32, comma 4, lett. c), della Legge n. 183 del 2010, mentre non vi è alcun onere di far accertare formalmente, nei confronti del cessionario, l'avvenuta prosecuzione del rapporto di lavoro” (Cass. 4 aprile 2019, n. 9469).

Un profilo di recente attenzione è quello che concerne la sussistenza o meno di un obbligo retributivo in capo al cedente nel caso in cui questi abbia omesso di riammettere in servizio il dipendente illegittimamente ceduto, quando questi abbia tuttavia continuato a prestare servizio presso cessionario: le retribuzioni corrisposte dal cessionario producono effetto estintivo dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente?

L’orientamento più risalente, difatti, individuava l’obbligazione gravante sul cedente in chiave risarcitoria: il cedente, dunque, poteva efficacemente eccepire la detrazione dell’aliunde perceptum che il lavoratore ceduto aveva ottenuto continuando a lavorare – anche dopo la sentenza che accertava l’illegittima delle cessione – presso la società cessionaria (Cass. 25 giugno 2018, n. 16694, Cass. 9 settembre 2014, n. 18955 , Cass.  30 maggio 2016, n. 11095).
L’orientamento della giurisprudenza maggioritaria è stato radicalmente innovato in seguito alla sentenza Cass. S.U. 7 febbraio 2018, n. 2990 – avallata anche dalla successiva pronuncia della Corte Costituzionale del 28 febbraio 2019, n. 29 – con la quale si è affermata la natura pienamente retributiva della posta dovuta dal cedente. Tale ricostruzione si basa sull’assunto secondo il quale il lavoratore illegittimamente ceduto sia contemporaneamente parte di due distinti e perfetti rapporti di lavoro, e che per entrambi percepisca un diritto alla retribuzione: un primo, ricostituito ex tunc in capo al cedente per effetto della pronuncia di accertamento della violazione dell’art. 2112 c.c., che esiste e prosegue a prescindere dalla riammissione presso l’originario posto di lavoro; un secondo, di fatto, instauratosi ex art. 2126 c.c. con il cessionario ed effettivamente caratterizzato dallo scambio tra attività lavorativa e retribuzione.

La procedura di trasferimento ex art. 47, Legge n. 428/1990

Con riguardo agli aspetti procedurali, si osserva che in caso di cessione d'azienda o di un ramo di essa, cedente e cessionario sono tenuti allo svolgimento della procedura di informazione e consultazione sindacale prevista dall’art. 47 Legge n. 428/1990. Tale procedura deve essere obbligatoriamente esperita per ogni operazione che coinvolga un cedente con almeno 15 lavoratori (computando pro-quota i lavoratori a tempo parziale e senza considerare apprendisti, lavoratori assunti con contratto di reinserimento, soci lavoratori non dipendenti), a prescindere dal numero dei trasferendi.

Cessionario e cedente sono entrambi tenuti a fornire alle OO.SS., anche in via congiunta, le seguenti informazioni: (i) data o data proposta del trasferimento; (ii) le ragioni del trasferimento; (iii) le conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori interessati; (iv) le eventuali misure previste nei confronti di questi ultimi.

La comunicazione deve essere trasmessa almeno 25 giorni prima dal perfezionamento dell’atto da cui deriva il trasferimento o dalla precedente intesa vincolante tra le parti, se precedente (non rilevano, a tal fine, le delibere consiliari che autorizzano l’operazione o la conclusione del preliminare). I destinatari della stessa sono le rappresentanze aziendali (RSA o RSU) costituite in ciascuna delle unità produttive interessate o, in loro mancanza, le OO.SS. che hanno stipulato il contratto collettivo applicato da cedente e cessionario ovvero ancora ai sindacati di categoria comparativamente più rappresentativi: non è richiesto che la comunicazione sia inviata ai lavoratori.

Esempio di comunicazione ex art. 47 Legge n. 428/1990:

 

[luogo e data]

RSA/RSU

 

Oggetto: Trasferimento di ramo d’azienda mediante affitto - comunicazione ai sensi dell'art. 47, Legge 29 dicembre 1990, n. 428.

 

Spett. OO.SS,

ai sensi e per gli effetti della norma in oggetto, le scriventi Società comunicano quanto segue.

ALFA (di seguito la “Cedente”) intende concedere in affitto a BETA (di seguito la “Cessionaria”), che intende affittare, - subordinatamente all’approvazione dell’operazione da parte dei competenti organi statutari delle società interessate -, il ramo di azienda esercente attività di [*] (di seguito per brevità il “Ramo”) e dei rapporti giuridici ad esso riferibili.

 

A. Descrizione del ramo oggetto di cessione

Il ramo d’azienda oggetto di affitto, come sopra individuato, è costituito da quel settore dell’azienda (e dai dipendenti a esso assegnato), che si occupa delle attività di [*] e, in particolare di:

(a)                    [descrizione compiuta delle attività svolte dal ramo]

(b)                   [*]

(c)                    [*]

Secondo quanto è oggi prevedibile, al sopra delineato ramo d’azienda saranno adibiti, al momento della cessione, complessivamente n. [*] lavoratori (come descritto nella tabella allegata – di seguito il “Personale Trasferito”), i quali continueranno pertanto tutti a prestare la loro attività lavorativa alle dipendenze del Cessionario.

I rapporti di lavoro in essere con i dipendenti interessati al trasferimento, infatti, nel rispetto delle previsioni di cui all’art 2112 c.c., saranno trasferiti in capo al Cessionario senza soluzione di continuità e con la conservazione dei trattamenti in atto, nei termini di quanto previsto nel successivo paragrafo D).

B. Motivazioni dell’operazione

La Cedente negli ultimi anni ha fatto registrare risultati di bilancio estremamente negativi, nonostante le azioni intraprese nel tentativo di invertire una siffatta tendenza.

In ragione di ciò, la Cedente, anche al fine di cercare di riequilibrare il rapporto tra costi di struttura e ricavi, nell’ottica, per quanto possibile, della salvaguardia dei livelli occupazionali, ha deciso di concedere in affitto alla Cessionaria il Ramo di cui al paragrafo A. e le attività ad esso connesse.

C. Fasi attuative della progettata operazione

Si prevede che la sopra descritta operazione possa essere completata entro la data del [*], sia per quanto riguarda il perfezionamento del contratto di affitto, sia per quanto concerne l’effettività del trasferimento.

La data suindicata deve essere considerata come indicativa, essendo l’operazione comunque subordinata alla sua preventiva approvazione da parte dei competenti organi statutari, fermo restando l’esperimento della procedura sindacale che si avvia con la presente.

D. Conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori coinvolti

La cessione riguarda il complessivo assetto del Ramo, ivi compresi i rapporti di lavoro dei dipendenti del Cedente allo stesso assegnati: tali rapporti proseguiranno – alla data dell’affitto – in capo al Cessionario, senza soluzione di continuità, così come previsto dall’art. 2112 c.c..

Il Cessionario – diversamente dal Cedente, il quale applica ai lavoratori del Ramo il CCNL Metalmeccanici – applicherà esclusivamente il CCNL Commercio: ne consegue che a tutti i dipendenti trasferiti sarà applicato – salve e impregiudicate le prerogative dell’instauranda procedura di consultazione sindacale – la disciplina contrattuale collettiva nazionale in essere presso il cessionario.

Per quanto concerne le ricadute eventualmente derivanti dalla modifica del CCNL applicato, queste saranno oggetto di esame congiunto con le OO.SS., fermo restando quanto previsto dall’art. 2112 c.c., 3° comma.

Pertanto, al momento in cui è redatta la presente, in ragione del previsto trasferimento del ramo d’azienda de quo non si prevedono per i lavoratori situazioni giuridiche, economiche e sociali diverse da quelle oggi esistenti.

La sede di lavoro del Personale Trasferito sarà in [*].

In relazione a tutto quanto sopra, con la presente comunicazione s’intende fornire ai soggetti legittimati dalla normativa di legge e di contratto l’informativa prevista dalle vigenti disposizioni di legge, nonché dalle previsioni normative del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro.

Nel dare, pertanto, avvio alle procedure in oggetto ad ogni conseguente effetto, si rimane a disposizione per i relativi incontri che codeste spettabili Organizzazioni Sindacali riterranno di richiedere.

Distinti saluti.

 

                        ALFA                                                                         BETA

 

Ricevuta l’informativa, le OO.SS. interessate possono richiedere, entro 7 giorni dalla ricezione dell’informativa, l’esperimento dell’esame congiunto con cedente e cessionario (insieme o anche su due tavoli separati). La conseguente consultazione si intende esperita se, nei dieci giorni successivi, non viene raggiunto un accordo tra le parti: cedente e cessionario sono chiamati a prendere in considerazione le proposte avanzate dai sindacati, ma non sono vincolati ad accoglierle.

L’eventuale intesa raggiunta in questa sede è nota come "contratto di armonizzazione", dato che il suo scopo principale è proprio quello di raccordare i trattamenti economici e normativi in essere presso cedente e cessionario nell’ipotesi in cui i due applichino regolamentazioni collettive – nazionali o anche solo integrative – diverse (per esempio, in caso di passaggio dal CCNL Commercio al CCNL Metalmeccanici, la 14 mensilità può essere convertita in un superminimo non assorbibile). Tuttavia, questo accordo può anche riguardare altre materie, come:
- impegno al mantenimento dei livelli occupazionali per un certo intervallo o alla conservazione delle mansioni attribuite dal cedente;
- trattamento della retribuzione in caso di trasferimento realizzati nel periodo di rifermento del piano ovvero per uniformare i diversi trattamenti in essere presso le due aziende;
- accordi circa il mantenimento della sede di lavoro per un dato periodo di tempo;
- regolamentazione della modifica del fondo di previdenza complementare;
- comunicazioni ai lavoratori.

Si ricorda, infine, che questi accordi rientrano nella categoria dei contratti collettivi c.d. "gestionali" e, in quanto tali, hanno efficacia vincolante erga omnes per tutta la platea dei lavoratori trasferiti, indipendentemente dalla loro iscrizione a una sigla sindacale firmataria degli stessi (Corte Cost. 30 giugno 1994, n. 268).
Avvenuto il trasferimento, il cessionario procede poi a comunicare detta circostanza ai lavoratori ceduti, precisando, anche in conformità all’art. 3 D.Lgs. n. 152/1997, le eventuali modificazioni intervenute in materia di trattamenti economici e normativi applicabili al rapporto di lavoro.

Il mancato rispetto della procedura sopra esposta costituisce comportamento antisindacale, sanzionabile a sensi dell’art. 28 Legge n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori).

Non c’è unicità di vedute in giurisprudenza circa le conseguenze di eventuali violazioni:
a) secondo un risalente e rigoroso orientamento, dalla violazione dell’obbligo di informazione e consultazione deriverebbe la nullità dell’atto di trasferimento per contrarietà a norma imperativa (Pret. Milano 2 luglio 1996, Pret. Roma 12 febbraio 1995);
b) l’orientamento ad oggi maggioritario, invece, ferma la validità e l’efficacia dell’atto di trasferimento, ritiene che la conseguenza della condotta antisindacale sia l’obbligo di svolgere correttamente la procedura di consultazione (Cass. 22 agosto 2005, n. 17072, Cass. 6 giugno 2003, n. 9130).

Il trasferimento dell’azienda in crisi

La disciplina vista ai paragrafi precedenti conosce alcune ipotesi derogatorie quando il cedente sia un’azienda in crisi, in modo tale da favorire la vicenda circolatoria e facilitare la ripartenza e la ripresa dei livelli occupazionali.

La regolamentazione in parola è stata completamente rinnovata dal nuovo Codice della crisi di impresa e in particolare dagli artt. 189 e 368 D.Lgs. n. 14/2019, che hanno modificato i commi 4-bis e 5 della norma, aggiungendo anche i commi 1-bis, 5-bis e 5-ter.

Tali modifiche saranno efficaci dalla data di entrata in vigore della predetta normativa che, dopo diversi rinvii, dovrebbe essere il 16 maggio 2022 (Legge n. 147/2021 ).

La disciplina attualmente in vigore conosce una regolamentazione differenziata a seconda che l’attività aziendale prosegua dopo il trasferimento (comma 4-bis) oppure cessi (comma 5).

L’attività svolta dal cedente prosegue nei casi di:

  1. dichiarazione dello stato di crisi aziendale ex art. 2 comma 5  lett. c), Legge n. 675/1977;
  2. in regime di amministrazione straordinaria (se c’è continuazione o mancata cessazione dell’attività) ex art. 63 D.Lgs. n. 270/1999;
  3. dichiarazione di apertura della procedura di ammissione al concordato preventivo;
  4. omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti;

In questi casi, ferma la necessità dell’esperimento della procedura di informazione e consultazione sindacale ex art. 47 comma 2 Legge n. 428/1990, l’accordo eventualmente raggiunto in quella sede può contenere una disciplina derogatoria delle garanzie di cui all’art. 2112 c.c. In particolare, può essere pattuito:

  • il trasferimento di solo una parte dei lavoratori dell’azienda o del ramo ceduto;
  • nuova assunzione alle dipendenze del cessionario, con conseguente azzeramento dell’anzianità di servizio e del TFR maturato (che rimarrà in capo al cedente, se del caso con l’intervento del Fondo di Garanzia);
  • la deroga alla responsabilità solidale relativamente ai diritti maturati prima del trasferimento (Cass. 4 novembre 2014, n. 23473);
  • un peggiore trattamento retributivo o un diverso inquadramento contrattuale per i dipendenti che vengono trasferiti;
  • la non applicazione di contratti integrativi che altrimenti sarebbero stati mantenuti (Cass. 5 marzo 2008, n. 5929 , Cass. 21 gennaio 2008, n. 1208).

Si ricorda come la Suprema Corte ha statuito che “in caso di trasferimento che riguardi aziende delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi dell’art. 2, quinto comma, lettera c), della Legge 12 agosto 1977, n. 675, ovvero per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività, ai sensi del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, l’accordo sindacale di cui all’art. 47 della Legge 29 dicembre 1990, n. 428, comma 4-bis, inserito dal D.L. n. 135 del 2009, conv. in Legge n. 166 del 2009, può prevedere deroghe all’art. 2112 c.c. concernenti le condizioni di lavoro, fermo restando il trasferimento dei rapporti di lavoro al cessionario” (Cass. 1° giugno 2020, n. 10415).

Altra ipotesi, invece, è quando il trasferimento riguarda aziende la cui attività sia stata già cessata (nei fatti o per la mancata disposizione della continuazione dell’attività), e dunque nei casi di:

  1. dichiarazione di fallimento;
  2. omologazione del concordato preventivo con cessione dei beni;
  3. provvedimento di liquidazione coatta amministrativa;
  4. sottoposizione all’amministrazione straordinaria;

In queste ipotesi, sempre salva la necessità di esperire la consultazione con le OO.SS., è possibile derogare in maniera ancora più incisiva alla disciplina standard; è difatti previsto espressamente che l’art. 2112 c.c. non trova applicazione ai lavoratori che siano trasferiti al cedente, a meno che lo stesso accordo ex art. 47, comma 2 Legge n. 428/1990 non introduca condizioni di miglior favore. Tale accordo può altresì prevedere che il personale eccedentario non venga trasferito al cessionario, rimanendo così alle dipendenze del cedente.

Il Codice della crisi di impresa (D.Lgs. 14/2019) ha fortemente innovato la disciplina di cui all’art. 47 Legge n. 428/1990 per il trasferimento delle aziende in crisi.

Questa modifica ha impattato anche la fase di consultazione sindacale, essendo ora previsto che, qualora il trasferimento si inserisca in una delle procedure di regolazione della crisi e dell'insolvenza di cui al predetto Codice, la comunicazione informativa alle OO.SS. possa essere formulata anche solo da “chi intenda proporre offerta di acquisto dell'azienda o proposta di concordato preventivo concorrente con quella dell'imprenditore” (cfr. nuovo comma 1bis). Considerando che l’efficacia dell’eventuale accordo di armonizzazione può essere anche “subordinata alla successiva attribuzione dell'azienda ai terzi offerenti o proponenti”, tale modifica consente ai potenziali cessionari di meglio valutare la convenienza dell’operazione complessiva.

La restante disciplina è graduata a seconda della possibilità di prosecuzione dell’azienda presso il cessionario.

Il comma 4-bis si applica a quelle aziende:

  1. per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo in regime di continuità indiretta, ai sensi dell’art. 84, comma 2 del Codice della crisi di impresa, con trasferimento di azienda successivo all'apertura del concordato stesso;
  2. per le quali vi sia stata l’omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, quando tali accordi non hanno carattere liquidatorio;
  3. per le quali è stata disposta l'amministrazione straordinaria a norma del D.Lgs. n. 270/1999, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività.

L’accordo eventualmente raggiunto nel corso della (sempre necessaria) fase sindacale può, ai fini di salvaguardare l’occupazione, derogare alla disciplina garantista delle condizioni di lavoro prevista dall’art. 2112 c.c., fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro.

Inoltre, il nuovo comma 5, di norma, prevede la continuazione dei rapporti di lavoro con il cessionario anche quando il trasferimento riguarda quelle imprese:

  1. contro cui sia stata aperta la liquidazione giudiziale;
  2. che abbiano aperta una procedura di concordato preventivo liquidatorio;
  3. contro le quali sia stato emanato il provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, nel caso in cui la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata.

 

Tuttavia, in tali ipotesi, nell’ambito della fase di consultazione sindacale, l’eventuale accordo è abilitato a derogare alle seguenti garanzie:

  • conservazione dei diritti derivanti dal rapporto di lavoro alle dipendenze del cedente (art. 2112, comma 1 c.c.);
  • obbligo di conservazione e/o sostituzione dei trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi applicati presso il cedente (art. 2112 comma 3 c.c.);
  • divieto di licenziamento motivato dal trasferimento e diritto alle dimissioni per giusta causa in caso di sostanziale modifica delle condizioni del rapporto di lavoro (art. 2112 comma 4 c.c.).

Viceversa, è espressamente previsto che il cessionario sia liberato dalla responsabilità solidale di cui all’art. 2112, comma 2 c.c., e che anzi i lavoratori ceduti abbiano immediato diritto di esigere il pagamento del trattamento di fine rapporto da parte del cedente o, se del caso (cfr. art. 2 Legge n. 297/1982), dal Fondo di garanzia (comma 5bis).

Eventuali ulteriori condizioni potranno essere convenute dagli accordi individuali sottoscritti nelle sedi di cui all’art. 2113 ult. comma c.c., anche in caso di esodo incentivato dal rapporto di lavoro.

Il nuovo comma 5ter, infine, riguarda esclusivamente il caso in cui il cedente sia un’impresa sottoposta all’amministrazione straordinaria senza continuazione dell’attività o con cessazione della stessa.

Per tale fattispecie è previsto che l’eventuale accordo raggiunto circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione (i restanti lavoratori rimarranno alle dipendenze del cedente) escluda tout court, nei riguardi dei lavoratori trasferiti, l’applicazione di alcuna delle disposizioni dell’art. 2112 c.c., salvo che dall'accordo risultino condizioni di miglior favore.

 

Cenni di gestione fiscale dell’operazione di trasferimento d’azienda

Il trasferimento d’azienda rappresenta una di quelle operazioni straordinarie che impattano anche sulla corretta compilazione della certificazione unica e del modello 770 di cedente e cessionario. Anzitutto, nel caso di applicazione dell’art. 2112 c.c. – e, dunque, con la continuazione del rapporto di lavoro in capo al cessionario nel corso del periodo fiscale – il cessionario dovrà fornire ai dipendenti ceduti un’unica certificazione contenente sia il conguaglio dei redditi percepiti nel periodo di imposta, sia la compilazione dei punti da 301 a 304 (relativa ai redditi erogati dal cedente).

Inoltre, per quanto riguarda la dichiarazione dei sostituti d’imposta da effettuarsi nell’anno fiscale in cui si è verificata un’operazione rilevante ex art. 2112 c.c., occorre distinguere l’ipotesi in cui si sia verificata l’estinzione del cedente da quella in cui ciò non si verifichi: nel primo caso, tenuto conto che con il trasferimento d’azienda si ha la prosecuzione da parte del cessionario dell’attività svolta dal primo (ad esempio è così in caso di fusione, scissione, cessione, mentre non lo è nelle ipotesi di liquidazione, fallimento, liquidazione coatta amministrativa), il nuovo datore di lavoro sarà altresì onerato dalla presentazione di un mod. 770 comprensivo anche dei dati riferibili alla frazione di periodo fiscale in cui ha operato il cedente (esponendo distintamente le situazioni riferibili al cessionario dichiarante e al cedente estinto); nel secondo caso, invece, entrambi i soggetti coinvolti nella vicenda circolatoria saranno rispettivamente chiamati ad effettuare la dichiarazione in autonomia.

Riferimenti normativi:

  • Codice civile, art. 2112
  • Legge 29 dicembre 1990, n. 428, art. 47
  • D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14
  • Legge 21 ottobre 2021, n. 147