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Il processo del lavoro e la ricerca della verità materiale

a cura di Luca Daffra - Studio Ichino, Brugnatelli e Associati  | 7 maggio 2021

Il giudice, fin dal primo grado e dunque anche in appello, deve esercitare il proprio potere-dovere di integrazione probatoria, ex officio, con l'acquisizione della documentazione offerta contestualmente con l'atto di impugnazione sulla base di allegazione effettuata già in primo grado, laddove tale documentazione sia indispensabile per provare i fatti costitutivi, motivando sulla decisività delle produzioni; con applicazione dell'affermato principio anche in riferimento alle prove orali.

La sentenza in commento

La Corte di Appello di Milano confermava la sentenza di primo grado, che aveva rigettato l'opposizione a cartella esattoriale, promossa dalla Società nei confronti dell’INPS, avente a oggetto pretesi contributi previdenziali omessi e relativi alle indennità di trasferta all'estero. Il rigetto si fondava sull’asserita mancanza dei presupposti per il vantato esonero contributivo.

La Corte territoriale, in particolare, riteneva inammissibile - in ragione delle preclusioni di cui all’art. 437 c.p.c. -, la documentazione allegata tardivamente al gravame e la formulazione di ulteriori capitoli di prova aventi ad oggetto fatti costitutivi della pretesa azionata dalla società, sulla quale gravava l'onere di provare, in modo rigoroso, il diritto a beneficiare delle esenzioni contributive. Avverso detta pronuncia, la società proponeva ricorso in Cassazione, eccependo – per quanto qui rileva – da un lato, la violazione dell'art. 437, comma 2, c.p.c. in punto di dichiarata inammissibilità, in ragione della tardività della relativa produzione, della documentazione allegata al gravame; dall’altro, l’omessa motivazione su un punto decisivo in ordine al carattere o meno indispensabile delle nuove prove precostituite prodotte e delle nuove prove costituende articolate con il ricorso in appello.

La Suprema Corte ha accolto detti motivi di ricorso, rammentando come le Sezioni Unite, con la sentenza 20 aprile 2005 n. 8202, abbiano chiarito che il deposito di documenti in momento successivo al deposito della memoria di costituzione è ammesso quando la produzione abbia ad oggetto circostanze decisive (in senso conforme: Cass. 5 novembre 2019, n. 28439).

Nell'ordinanza in commento, i Giudici della Suprema Corte ricordano, infatti, che lo stringente regime delle preclusioni previsto nel rito del lavoro dal combinato dell'art. 416, comma 3 c.p.c. - che stabilisce che il convenuto deve indicare, a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare - e dell'art. 437 , v. 2, c.p.c., “trova un contemperamento - ispirato alla esigenza della ricerca della verità materiale, cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento - nei poteri d'ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437, secondo comma cod. proc. civ., ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa”.

A quest’ultimo riguardo, i Giudici richiamando alcuni precedenti della stessa Cassazione – proprio in tema di ammissibilità dei mezzi istruttori in appello e nozione di indispensabilità della prova – chiariscono come: “il giudizio di indispensabilità implica una valutazione sull'idoneità del mezzo istruttorio a dissipare un perdurante stato di incertezza sui fatti controversi smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio” (Cass. Sez. Un. 4 maggio 2017, n. 10790).

Un siffatto potere ufficioso spettante al giudice del lavoro non è peraltro illimitato dovendo essere esercitato “pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo, a seguito del contraddittorio delle parti stesse”.

La Cassazione ha quindi cassato la sentenza impugnata rinviando alla Corte d'Appello affichè questa si pronunci facendo applicazione del principio espresso nella massima.

Commento critico

La sentenza in commento rammenta come il fine ultimo del processo del lavoro sia l’accertamento della verità “materiale” e per raggiungere un tale scopo il giudice non può trincerarsi dietro la meccanica applicazione del regime delle preclusioni, ma deve fare ricorso al proprio potere d’ufficio in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova.

E così, la Cassazione, già in precedenza, aveva avuto modo di affermare che: “Nel rito del lavoro, l'omessa indicazione, nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, a meno che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall'evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione; tale rigoroso sistema di preclusioni trova un contemperamento nei poteri d'ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova. L'esercizio di tali poteri officiosi, nel rito del lavoro, ammesso pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa, non è arbitrario nè meramente discrezionale, ma si presenta come un potere-dovere, sicchè il giudice del lavoro non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondata sull'onere della prova, avendo l'obbligo - in ossequio al "giusto processo regolato dalla legge" - di esplicitare le ragioni per le quali reputi di far ricorso all'uso dei poteri istruttori ovvero di non farvi ricorso ed il relativo provvedimento può, così, essere sottoposto al sindacato di legittimità qualora non sia sorretto da una congrua e logica spiegazione nel disattendere la richiesta di mezzi istruttori relativi ad un punto della controversia che, se esaurientemente istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione della causa” (Cass. 7 luglio 2020, n. 14081 ).

Un tale potere, tuttavia, non può travalicare quelle che sono le allegazioni delle parti, per non trasformarsi in un’arbitraria supplenza del ruolo del legale della parte.

Sul punto, è stato efficacemente osservato – con riguardo il giudizio di impugnazione – che: “Nel giudizio di appello l'indispensabilità delle nuove prove deve apprezzarsi necessariamente in relazione alla decisione di primo grado e al modo in cui essa si è formata, sicché solo ciò che la decisione afferma a commento delle risultanze istruttorie acquisite deve evidenziare la necessità di un apporto probatorio che, nel contraddittorio in primo grado e nella relativa istruzione, non era apprezzabile come utile e necessario. Ne consegue che, se la formazione della decisione è avvenuta in una situazione nella quale lo sviluppo del contraddittorio e delle deduzioni istruttorie avrebbero consentito alla parte di valersi del mezzo di prova perché funzionale alle sue ragioni, deve escludersi che la prova sia indispensabile, se la decisione si è formata prescindendone, essendo imputabile alla negligenza della parte il non aver introdotto tale prova. Ricostruito in questo senso, il concetto di indispensabilità non collide con un impianto processuale imperniato sulle preclusioni e si presenta anzi perfettamente armonico” (Corte appello Roma  11 settembre 2018, n. 2857).

E’ bene, infine, rammentare che il potere del giudice di ammettere nuovi mezzi di prova non trova, naturalmente, ingresso nel procedimento per cassazione, che non consente alcuna forma di istruzione probatoria, ed è, quindi, preclusa la produzione di documenti ovvero di altre cose materiali che servano come mezzi di prova di fatti posti a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti miranti ad introdurre nuove circostanze, che non siano quelle riguardanti la nullità della sentenza o l'inammissibilità del ricorso o del controricorso (Cass. 17 giugno 2020, n. 11706 ).

Riferimenti normativi:

  • Codice di procedura civile, artt. 416 e 437
  • Corte di cassazione, ordinanza 23 aprile 2021, n. 10878